Questo misterioso ed altrettanto mitizzato dandy è stato possibile conoscerlo solamente grazie alla sua amicizia con André Breton, poeta e vate del movimento surrealista, col quale intratteneva una fitta corrispondenza, raccolta poi da Breton in un volume pubblicato col titolo di "Lettere di guerra"; infatti Breton conobbe Vaché proprio in guerra, quando, prestando servizio come medico nell'ospedale di Nantes, conobbe l'elegante paziente, ferito ad un polpaccio. Là, il dandy-ufficiale dell'esercito (sarà vero?) esprimeva le sue teorie sull'arte (lui stesso era eccellente disegnatore), sulla letteratura, sul teatro, sulla poesia; opinioni, queste, che lasciarono un profondo segno in André Breton, il quale in seguito giudicherà l'amico un dadaista, nonostante Vaché non venne mai a conoscenza del nuovo movimento artistico e culturale che di lì a poco sarebbe sorto a Zurigo graziea a Tristan Tzara ed Hugo Ball. Vaché fu promosso maestro nell'arte "di attribuire pochissima importanza a tutte le cose".
Difficile riportare qui tutti i pensieri e le opinioni di Vaché, autentico dandy novecentesco; ci basti solo sapere che nei giorni liberi dal servizio militare, e in piena guerra, andava in giro per le città con una divisa buona per entrambi i fronti, giacchè da un lato era uniforme francese, dall'altro tedesca, anche se, racconta Breton, era difficile notare la differenza a causa dei numerosissimi ninnoli e medaglie che lo ricoprivano, e certamente l'occhio sarebbe pure caduto sul provocante monocolo che Jacques esibiva con tanta impertinenza, così come le raffinate cravatte di seta che si ostinava a portare, andando contro il regolamento militare. Pure, Breton racconta che spesso era possibile vederlo in uniforme medica, e, se fermato da qualche altro militare, dava credenziali false a suo piacere, o, se gli veniva chiesto di presentare chi lo accompagnava, lui lo presentava con un nome completamente inventato. Esplicita Breton: "Il rifiuto di partecipare è quanto più possibile completo, sotto la maschera di un'accettazione formale, spinta quasi all'estremo: tutti i 'segni esteriori del rispetto', di una adesione in qualche modo automatica proprio a ciò che l'intelletto trova più insensato. Con Jacques Vaché non s'ode più un grido, nè un sospiro: i 'doveri' dell'uomo, e tra tutti quello 'patriottico' che a quei tempi esagitati ne costituiva l'espressione più tipica, sfidando anche l'obiezione, che ai suoi occhi appare ancora troppo accomodante. Per trovare la volontà e la forza di opporsi, bisognerebbe essere ancora meno definitivamente fuori dalla mischia. Alla diserzione all'estero in tempo di guerra [...] Vaché contrappone un'altra forma di disobbedienza, che si potrebbe chiamare la diserzione all'interno di se stessi. Non si tratta più del disfattismo alla Rimbaud del 1870-71, ma è un partito preso di indifferenza totale, preoccupato solo di non servire a nulla, di disservire con zelo. Atteggiamento individualista ad oltranza".
La vita sregolata del dandy ebbe fine nel 1918: egli disse una volta a Breton che la guerra era l'unica cosa eccitante mai capitatagli, e che, finita questa, la vita sarebbe tornata ad essere noiosa; evitò questo spiacevole inconveniente in seguito all'assunzione d'una forte dose d'oppio, sostanza da cui era dipendente da tempo, assieme ad un suo amico militare, non avvezzo alla droga; la loro morte fece nascere molti sospetti, se si ricorda una frase di Vaché: "Morirò quando io vorrò morire... Ma allora morirò con qualcun altro. Morire soli è troppo noioso... Preferibilmente con uno dei miei migliori amici"; a questo punto è facile valutare se sia il caso di considerare accidentale la morte del dandy, soprattutto se pensiamo che non è morto solo: un altro cadavere, nello stesso letto di un albergo a Nantes, giaceva accanto a lui: era l'amico Paul Bonnet. Vaché ha voluto lasciarci un'ultimo, provocatorio, stupefacente, attestato di supremo dandismo, anche dopo la sua morte; "Ammettere che questa duplice morte sia stata il risultato di un progetto sinistro, significa rendere terribilmente eresponsabile una memoria" dice Marc-Adolphe Guégan in "La ligne du coeur". Provocare la denuncia di questa 'terribile responsabilità' fu, non vi è dubbio, la suprema ambizione di Jacques Vaché.
Difficile riportare qui tutti i pensieri e le opinioni di Vaché, autentico dandy novecentesco; ci basti solo sapere che nei giorni liberi dal servizio militare, e in piena guerra, andava in giro per le città con una divisa buona per entrambi i fronti, giacchè da un lato era uniforme francese, dall'altro tedesca, anche se, racconta Breton, era difficile notare la differenza a causa dei numerosissimi ninnoli e medaglie che lo ricoprivano, e certamente l'occhio sarebbe pure caduto sul provocante monocolo che Jacques esibiva con tanta impertinenza, così come le raffinate cravatte di seta che si ostinava a portare, andando contro il regolamento militare. Pure, Breton racconta che spesso era possibile vederlo in uniforme medica, e, se fermato da qualche altro militare, dava credenziali false a suo piacere, o, se gli veniva chiesto di presentare chi lo accompagnava, lui lo presentava con un nome completamente inventato. Esplicita Breton: "Il rifiuto di partecipare è quanto più possibile completo, sotto la maschera di un'accettazione formale, spinta quasi all'estremo: tutti i 'segni esteriori del rispetto', di una adesione in qualche modo automatica proprio a ciò che l'intelletto trova più insensato. Con Jacques Vaché non s'ode più un grido, nè un sospiro: i 'doveri' dell'uomo, e tra tutti quello 'patriottico' che a quei tempi esagitati ne costituiva l'espressione più tipica, sfidando anche l'obiezione, che ai suoi occhi appare ancora troppo accomodante. Per trovare la volontà e la forza di opporsi, bisognerebbe essere ancora meno definitivamente fuori dalla mischia. Alla diserzione all'estero in tempo di guerra [...] Vaché contrappone un'altra forma di disobbedienza, che si potrebbe chiamare la diserzione all'interno di se stessi. Non si tratta più del disfattismo alla Rimbaud del 1870-71, ma è un partito preso di indifferenza totale, preoccupato solo di non servire a nulla, di disservire con zelo. Atteggiamento individualista ad oltranza".
La vita sregolata del dandy ebbe fine nel 1918: egli disse una volta a Breton che la guerra era l'unica cosa eccitante mai capitatagli, e che, finita questa, la vita sarebbe tornata ad essere noiosa; evitò questo spiacevole inconveniente in seguito all'assunzione d'una forte dose d'oppio, sostanza da cui era dipendente da tempo, assieme ad un suo amico militare, non avvezzo alla droga; la loro morte fece nascere molti sospetti, se si ricorda una frase di Vaché: "Morirò quando io vorrò morire... Ma allora morirò con qualcun altro. Morire soli è troppo noioso... Preferibilmente con uno dei miei migliori amici"; a questo punto è facile valutare se sia il caso di considerare accidentale la morte del dandy, soprattutto se pensiamo che non è morto solo: un altro cadavere, nello stesso letto di un albergo a Nantes, giaceva accanto a lui: era l'amico Paul Bonnet. Vaché ha voluto lasciarci un'ultimo, provocatorio, stupefacente, attestato di supremo dandismo, anche dopo la sua morte; "Ammettere che questa duplice morte sia stata il risultato di un progetto sinistro, significa rendere terribilmente eresponsabile una memoria" dice Marc-Adolphe Guégan in "La ligne du coeur". Provocare la denuncia di questa 'terribile responsabilità' fu, non vi è dubbio, la suprema ambizione di Jacques Vaché.
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